Rebecca Miller dirige Peter Dinklage, Anne Hathaway, Marisa Tomei, Joanna Kulig


Rebecca Miller dirige Peter Dinklage, Anne Hathaway, Marisa Tomei, Joanna Kulig e altri ancora in una commedia modesta sì, ma sghemba e straluntata abbastanza da incuriosire e lasciare anche stranamente divertiti.

C’è Peter Dinklage, che è sempre Peter Dinklage, e quindi bravo, che fa il compositore di opere liriche contemporanee un po’ nevrotico e, soprattutto, in crisi d’ispirazione. Poi c’è Anne Hathaway, che non o mai capito perché in tanti ce l’abbiano così tanto con lei, che è sua moglie, già sua analista, che mostra inedite tensioni al trascendente.
Hathaway ha un figlio diciottenne (Evan Ellison), avuto dal primo marito, innamoratissimo di una bionda sedicenne (Harlow Jane), figlia dell’immigrata Joanna Kulig (la bomba attractive di Chilly Battle, qui in versione finto dimessa) e adottata dal di lei compagno, un tizio pedante e rigido (Brian d’Arcy James) amante delle ricostruzioni dal vivo di battaglie storiche, bacchettone e pure un po’ razzista, che si sente a disagio – per ovvi e poco nobili motivi – quando la ragazzina si presenta a tavola con una canottiera bianca aderente che nasconde troppo poco.
Gli equilibri un po’ precari di questo gruppo di personaggi crollano quando di scopre che la nuova colf della Hathaway è la mamma della fidanzata del figlio, e quando Dinklage incontra in un bar, una mattina, e poi nel letto di lei, una Marisa Tomei che è il capitano di un rimorchiatore con un nome da uragano (Katrina) e con una dipendenza dal romanticismo e dallo stalking, e che diventa, contro ogni aspettativa, la musa in grado di sbloccare la creatività del musicista.

La mente creativa dietro a tutto questo è Rebecca Miller, che non sarà certo pari a papà Arthur, ma che qui è più commediografa che mai. Cambierà pure formato all’immagine di continuo, senza peraltro un solido motivo apparente, ma di certo non sta nella messa in scena la forza di un movie così bizzarro, anche nella modestia di certi risultati, da lasciare un po’ interdetti ma anche un po’ incuriositi, e in qualche modo, almeno in parte, sedotti per by way of del suo testo stravagante.
Sghembo, She Got here To Me, lo è senza dubbio.
Volutamente stralunato, a tratti, in quei tratti dove Rebecca Miller gioca in maniera vagamente spericolata col ridicolo volontario. È un movie strano, un po’ confuso, a tratti precario e pericolante, che non si sa bene dove voglia andare a parare, che poi para nell’ovvio, ma con una benevolenza e un’assenza di presunzione che lo mette al riparo da ogni possibile accusa di antipatia, o di supponenza.
D’altronde, in She Got here To Me, Dinklage finisce con l’incontrare Tomei quando sua moglie gli cube di “rompere gli schemi”, di perdersi passeggiando, di parlare con degli sconosciuti per uscire dal vicolo cieco dei suoi pensieri. E di certo arriva l’effetto: sperato, sì, ma forse non fino a quel punto.

Ma se le vie del Signore sono infinite, quelle dell’amore sono misteriose: e l’amore, alla high-quality dei conti, è il motore di tutto quello che c’è, in questo movie. Soprattutto, verrebbe da dire, l’amore tra due giovani, tra due ragazzi innamorati che guardano al futuro con la speranza di renderlo migliore: col proprio lavoro e il proprio impegno.
Certo, come Anne Hathaway ricorda a suo figlio, a lui e alla sua fidanzata il lobo frontale non ha finito ancora di formarsi (e il lobo frontale è quello responsabile di scelte e decisioni), e la cosa ha il suo senso, ma è indubbio che in She Got here To Me siano l’impulsività e il sentimento, che siano quelli della giovinezza, o di una donna cresciuta a mare e movie romantici, a far più bella figura rispetto alle idiosincrasie, le ipocrisie, le illusione e le deadlock della vita adulta.
Poi certo: lo sappiamo tutti che non è proprio così, o non sempre, ma She Got here To Me lo guardiamo lo stesso, un po’ imbambolati, un po’ sbalorditi ma tutto sommato conquistati dal suo essere così volutamente sconclusionato. Lo guardiamo un po’ così come chi sta nel movie guarda le ridicole opere liriche di Dinklage. Non con lo stesso rapimento, certo, ma magari con la stessa incredulità sospesa e divertita. Un’incredulità diversa da quella, invece niente affatto divertita, su certe realtà anacronistiche degli Stati Uniti di oggi che Miller pare voler fotografare nell’unico personaggio negativo del movie, non a caso ossessionato dalla storia del suo paese.





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