La festa della Liberazione raccontata attraverso le parole di chi c'era e ha lottato per la Patria: Velia Sacco è un’ex partigiana, oggi
ha 100 anni e sette mesi ma si commuove ancora quando ricorda l’arrivo dei
tedeschi nella sua casa. Lo racconta ai microfoni de Il Mattino: all'epoca abitava a Celano, in provincia de L’Aquila e il centro e il nord Italia era ancora terra di razzie
da parte dei tedeschi. Queste le sue parole: «Ho davanti ai miei occhi l’immagine di quando arrivarono con i carrarmati e distrussero tutto: vedemmo all’improvviso radere al suolo abitazioni, qualsiasi cosa
trovavano. Rubavano nelle case, prendevano cibo, vestiti,
bestiame, violentavano le donne. Mio padre era
capostazione e con la mia famiglia abitavano lì, proprio vicino alla stazione
ferroviaria. C’era stato il terremoto in quelle zone e tanti vivevano in
abitazioni provvisorie. Eravamo l’unica casa del paese ad avere l’acqua
corrente proprio perché serviva per i rifornimenti nella stazione. Anche
tedeschi venivano a rifornirsi lì, ma un bel giorno distrussero anche le
condutture d’acqua. Rimase solo un pergolato. Noi ci nascondemmo e fummo costretti
a bere per giorni acqua delle fogne: la bollivamo per
cercare di uccidere i batteri. A mia sorella che all’epoca aveva 8 anni, mio
padre faceva succhiare mele o patate per farle reperire un po’ d’acqua: aveva
paura a darle l’acqua delle fogne, era ancora piccola. Avevo anche un fratello, all’epoca aveva 14 anni: io e mia
madre lo vestivamo da donna per paura che prendessero anche lui. In quel periodo si portavano i pantaloni alla zuava, li nascondeva
sotto la gonna. Ricordo che una volta aiutammo una donna che aveva paura per
suo figlio: caricavano tutti sui vagoni del treno, poi lasciavano andare le
donne e trattenevano gli uomini. Facemmo mettere una doppia gonna a quella
donna in modo che potette poi farla indossare di nascosto al figlio, coprendo i
pantaloni alla zuava. E così riuscirono a salvarsi entrambi e a tornare a casa.
Non tutti però riuscivano a salvarsi: un giorno sequestrarono un collega di mio
padre a lavoro, in stazione. La moglie chiese disperata quando lo avrebbero
rilasciato, quando sarebbe potuto tornare a casa. Le risposero che sarebbe
tornato il giorno seguente: ma all’indomani arrivò
la sua testa in un cestino. Difficile raccontare quei
momenti: torturavano e uccidevano chiunque potesse essere sospetto, noi
vivevamo nella paura. Per raccontare tutte
le cose che ho visto non basterebbe un’altra vita», dice sorridendo. È nata il
19 ottobre del 1919 e ha gli occhi vispi di chi ne ha vissute tante, ma
soprattutto la voglia di tramandare la sua esperienza, la saggezza acquisita
sul campo: «Io e la mia famiglia abbiamo fatto di tutto per mettere fine alle
razzie dei tedeschi. Io ho studiato a Roma al liceo classico, ho visto la prima
radio e ne avevamo una segreta, sottoterra nella stazione. Con la scusa di
andare a prendere il latte scendevo
i tre piani sottoterra e andavo ad ascoltare Radio Londra così da portare i
messaggi cifrati per gli alleati.
Avevo paura, e tanta. Ma lo facevo perché la speranza che tutto questo finisse
era l’unica cosa che mi faceva andare avanti. E allora facevo qualsiasi cosa
fosse utile, mi ingnegnavo. Ero molto brava a ricamare, a cucire. Ho sempre
lavorato e cucivo gli abiti anche per i reali: ho realizzato gli abiti per Fabiola, regina dei belgi, che mi è venuta anche a trovare
quando tutto finì. Era davvero affezionata a me. Ma grazie al mio talento nel
ricamo cucii una
cartina geografica: era vietato possederne una,
e così la nascosi dietro un
cigno. In realtà
quella cartina mi serviva per seguire e mostrare i movimenti delle forze
Alleate, che ascoltavo con i
messaggi cifrati su Radio Londra. E sapete, ho pianto quando ho riconosciuto la
voce di quel commentatore, dopo anni, ancora per radio: sono cose difficili da
descrivere a chi non le ha vissute».
Troppe cose da raccontare, le emozioni si accavallano: «Alle 8 di sera c’era il coprifuoco. D’estate però faceva buio più tardi e non avevamo orologi all’epoca. Poteva capitare che fra tanto lavoro si sforava un po’: i tedeschi però sparavano chiunque vedevano ancora in giro. Una sera uccisero il nostro vicino che rientrava dai campi. Così, senza motivo: probabilmente era un po’ più tardi delle otto. Aveva 57 anni e io mi presi cura della vedova, ma promisi di mettere fine a tutto questo, Cercavamo di aiutare come potevamo. Mio padre sapeva quando passavano i treni con i prigionieri liberati dai partigiani: li facevano viaggiare nei carri bestiame, al buio, per nasconderli. Li facevamo proseguire per l’Adriatico, evitando Firenze dove avrebbero potuto trovarli. Passavano anche i detenuti diretti ad Auschwitz. Noi provavamo ad aiutare tutti. Avevamo allestito un pronto soccorso per loro, ovviamente di nascosto. Preparavamo il pane, ne sfornavamo tanto e ci davamo da fare a raccogliere grano per provare a sfamarli tutti. Ma così ci sentivamo uniti, umani. Ci aiutava a sopportare, a resistere. Quell’inverno fu molto freddo, dieci gradi sotto zero. Loro prendevano i nostri vestiti. Un giorno in chiesa mia madre riconobbe la mia giacca sulla moglie di un compaesano e capimmo che molto probabilmente lui aiutava i tedeschi. Dovevamo stare attenti a tutto: sparavano chiunque per un minimo sospetto. Ho visto morire tante persone: ricordo un nonno che cercava di salvare il suo nipotino di 11 anni, ma spararono entrambi. E per ogni tedesco ucciso loro uccidevano dieci civili italiani».
Cose che sembrano tanto lontane, e invece non lo sono affatto. «Rivedo ancora le lacrime di mio padre - spiega ancora Velia - quando ascoltammo Mussolini dire: “Non cercate Matteotti, l’ho fatto uccidere”. Lui era un socialista. È un momento che non dimenticherò mai. Nel frattempo in Italia avanzavano le rivolte, nel 44 ci fu lo sbarco ad Anzio degli americani e i tedeschi cominciarono a essere alle strette. Noi partigiani a Celano avevamo fatto tanti sacrifici, visto morire tante persone e vivevamo ancora nel terrore. L’ultima volta che vidi i tedeschi ricordo solo che fu una giornata piena di cenere, fumi: demmo fuoco a 16 vagoni di petrolio diretti verso il fronte di Cassino che passavano per la stazione. La nostra abitazione fu coperta dalla cenere, non si poteva entrare. Ci ospitarono dei vicini per un po’… ma quel momento sancì la fine di un incubo che ha segnato le nostre vite. Ci sono immagini che non potrò mai dimenticare, neanche se passassero altri 100 anni. È difficile raccontare tutto. Però fra le immagini belle ricordo quella di papa Pio XII con la tunica sporca di sangue che cercava di aiutare i moribondi per le strade: sono quelle piccole cose che ci hanno dato la speranza, la forza di resistere e lottare».
Ma oggi proprio per non dimenticare il figlio di Velia, Franco Veri, presidente dell’associazione Dinamica Odg ha organizzato insieme alla Casa del popolo di Fuorigrotta con i consiglieri Gianluca Cavotti e Annalisa Mantellini, a Fabiana Di Costanzo, e ad altre associazioni napoletane un flash mob speciale nella sua città, Napoli: tutti sui balconi a sventolare qualcosa di rosso e a cantare insieme per ricordare che l’Italia ce l’ha fatta all'epoca, e ce la farà ancora anche contro il coronavirus.
Troppe cose da raccontare, le emozioni si accavallano: «Alle 8 di sera c’era il coprifuoco. D’estate però faceva buio più tardi e non avevamo orologi all’epoca. Poteva capitare che fra tanto lavoro si sforava un po’: i tedeschi però sparavano chiunque vedevano ancora in giro. Una sera uccisero il nostro vicino che rientrava dai campi. Così, senza motivo: probabilmente era un po’ più tardi delle otto. Aveva 57 anni e io mi presi cura della vedova, ma promisi di mettere fine a tutto questo, Cercavamo di aiutare come potevamo. Mio padre sapeva quando passavano i treni con i prigionieri liberati dai partigiani: li facevano viaggiare nei carri bestiame, al buio, per nasconderli. Li facevamo proseguire per l’Adriatico, evitando Firenze dove avrebbero potuto trovarli. Passavano anche i detenuti diretti ad Auschwitz. Noi provavamo ad aiutare tutti. Avevamo allestito un pronto soccorso per loro, ovviamente di nascosto. Preparavamo il pane, ne sfornavamo tanto e ci davamo da fare a raccogliere grano per provare a sfamarli tutti. Ma così ci sentivamo uniti, umani. Ci aiutava a sopportare, a resistere. Quell’inverno fu molto freddo, dieci gradi sotto zero. Loro prendevano i nostri vestiti. Un giorno in chiesa mia madre riconobbe la mia giacca sulla moglie di un compaesano e capimmo che molto probabilmente lui aiutava i tedeschi. Dovevamo stare attenti a tutto: sparavano chiunque per un minimo sospetto. Ho visto morire tante persone: ricordo un nonno che cercava di salvare il suo nipotino di 11 anni, ma spararono entrambi. E per ogni tedesco ucciso loro uccidevano dieci civili italiani».
Cose che sembrano tanto lontane, e invece non lo sono affatto. «Rivedo ancora le lacrime di mio padre - spiega ancora Velia - quando ascoltammo Mussolini dire: “Non cercate Matteotti, l’ho fatto uccidere”. Lui era un socialista. È un momento che non dimenticherò mai. Nel frattempo in Italia avanzavano le rivolte, nel 44 ci fu lo sbarco ad Anzio degli americani e i tedeschi cominciarono a essere alle strette. Noi partigiani a Celano avevamo fatto tanti sacrifici, visto morire tante persone e vivevamo ancora nel terrore. L’ultima volta che vidi i tedeschi ricordo solo che fu una giornata piena di cenere, fumi: demmo fuoco a 16 vagoni di petrolio diretti verso il fronte di Cassino che passavano per la stazione. La nostra abitazione fu coperta dalla cenere, non si poteva entrare. Ci ospitarono dei vicini per un po’… ma quel momento sancì la fine di un incubo che ha segnato le nostre vite. Ci sono immagini che non potrò mai dimenticare, neanche se passassero altri 100 anni. È difficile raccontare tutto. Però fra le immagini belle ricordo quella di papa Pio XII con la tunica sporca di sangue che cercava di aiutare i moribondi per le strade: sono quelle piccole cose che ci hanno dato la speranza, la forza di resistere e lottare».
Ma oggi proprio per non dimenticare il figlio di Velia, Franco Veri, presidente dell’associazione Dinamica Odg ha organizzato insieme alla Casa del popolo di Fuorigrotta con i consiglieri Gianluca Cavotti e Annalisa Mantellini, a Fabiana Di Costanzo, e ad altre associazioni napoletane un flash mob speciale nella sua città, Napoli: tutti sui balconi a sventolare qualcosa di rosso e a cantare insieme per ricordare che l’Italia ce l’ha fatta all'epoca, e ce la farà ancora anche contro il coronavirus.